Favole feroci: Urataro

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Il Giappone, forse per merito del suo passaggio relativamente recente alla modernità, può vantare una narrativa tradizionale ancora viva e arzilla. Tra tutte le favole che ancora vivono di ottima salute, venendo di volta in volta reinterpretate in film, libri, fumetti, manga, animazioni e persino giochi di carte collezionabili, le più famose sono quasi sicuramente la favola della Principessa Kaguya (a cui Isao Takahata, il cofondatore dello Studio Ghibli, ha dedicato l’ultima regia prima della sua scomparsa), Urashima Taro e Momotaro.

Proprio il protagonista di quest’ultima, il bambino nato da una pesca che galleggiava placida tra le acque di un fiume, si trova ad essere protagonista del manga Urataro, sceneggiato e disegnato da Atsushi Nakayama e pubblicato da J-Pop.

La favola me la ricordavo meno macabra…

O, perlomeno, dovrebbe essere lui, anche se la storia è leggermente diversa. Il ventre del cadavere della madre gonfio dei gas della decomposizione sostituisce le rotondità della pesca ed il grazioso e paffuto bambino dalla forza sovrumana è sostituito da un adolescente spigoloso e immortale da secoli. Proprio a lui, ormai sprofondato in un torpore atarassico, si rivolge la principessa Taira no Chio in fuga da una maledizione che le impone di morire entro un anno esatto. Ottimista, rumorosa, sventata e inarrestabile, riesce quasi senza fatica a smuovere qualcosa che si era arrestato nel cuore di un immortale leggendario e lo convince ad accompagnarla nel suo viaggio alla conquista dell’immortalità con una singolare promessa: se lui riuscirà a renderla immortale, lei farà di tutto per ucciderlo.
In questo Giappone appena uscito dalla guerra Genpei (1180–1185 d.c.) non sono stati i Minamoto a trionfare bensì i Taira e conseguentemente il potere imperiale è saldo a tal punto che l’Imperatore Antoku, a quanto sembra una prosperosa ragazzina adolescente, immortale anch’essa, si muove indisturbato(a) in compagnia del grande guerriero Taira no Noritsune. Indisturbati si muovono anche demoni e mostri sanguinari che smembrano e divorano vive le persone, strani monaci scintoisti dalle abilità disumane, un muscoloso monaco buddista (Jii) fedele a Chio al punto di tornare persino dalla morte ed altri personaggi bizzarri.
Tutti in qualche modo interessati a Chio, tutti in qualche modo considerati una massiccia seccatura dallo scostante Urataro.

Urataro e Chio

Dalla sinossi si intuirà che questo manga, programmato in sei uscite di cui tre già in fumetteria, non si fa molti problemi a descrivere situazioni fiabesche ed assurde condendole con massiccie dosi di sangue, brandelli di carne, visceri ed ossa sparpagliate in giro.
Il disegno è in questo complice ideale di una sceneggiatura estremamente lineare e dagli inizi un po’ lenti: il tratto va ad inserirsi in quella che potremmo definire “scuola punk” e di cui un noto rappresentante è stato Shinichi “Fortified School” Hiromoto. I personaggi sono disegnati con un’estetica “graffittara”, abbozzata e tendente alla deformità e all’esagerazione di determinati aspetti, dagli occhi ampi e luminosi di Chio alla magrezza eccessiva e contrastante con la sua capigliatura spinosa di Urataro, alle forme “gonfiate” dell’Imperatore Antoku. Ma la deformazione cartoonesca dei personaggi si rivela ben presto per quello che è, solo un artificio stilistico “spiazzante”: una provocazione nel momento in cui l’autore si permette di disegnare invece personaggi secondari con proporzioni quasi realistiche e l’istante dopo di smembrare letteralmente la scena (e probabilmente il personaggio) in una sorta di incubo frammentario di chine, immagini abbozzate e macchie. Se dobbiamo continuare il paragone con il già citato Hiromoto, nel pennino di Nakayama cogliamo parecchia “professione”: il taglio della scena è quasi sempre estremamente funzionale alla narrazione ed i momenti in cui non lo è, i momenti in cui l’autore privilegia l’uso di tavole fatte quasi solo di inquadrature di dettaglio, cadono quasi sempre in momenti di intercalazione e sembrano più stratagemmi per risparmiare lavoro che non errori.
Volendo riprendere la metafora musicale, l’impressione è che Nakayama abbia adottato lo stile punk per scelta e non per mascherare il fatto di non saper suonare.

L’Imperatore(?) Antoku mostra di non essere solo un bel faccino

Come detto, in questo la narrazione si inserisce bene; in effetti, l’affermazione precedente che il disegno ne sia “complice ideale” potrebbe essere errata. Forse a Nakayama interessava più disegnare la storia che raccontarla. Questo non vuol dire che la storia sia narrata con pigrizia o senza interesse: le azioni e reazioni sono plausibili e ben ritmate ed i dialoghi aiutano a conoscere i personaggi senza diventare “spiegoni”. Ma l’ipotesi fatta poco sopra potrebbe spiegare perché il volume di esordio mi avesse lasciato freddo ed io abbia dovuto arrivare al terzo volume (di, ricordo, sei programmati) per decidere che, dopotutto, i personaggi, le loro routine e le loro interazioni meritassero la mia attenzione.

In sostanza Urataro, dietro i personaggi bozzettosi e le chine sparse a strisce, dà l’impressione di celare la solida mano di un professionista e, per questo, potrebbe meritare la vostra attenzione.

Luca Cerutti

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